Su almeno una cosa la UE concorda: il salario minimo non è più procrastinabile. Le istituzioni europee hanno raggiunto un’intesa per individuare delle procedure comunitarie che adeguino i livelli di salario minimo in tutti i Paesi della UE. Si può dire, però, che il provvedimento già mostri delle debolezze. Nonostante le intenzioni della UE fossero virtuose e orientate alla riduzione delle disuguaglianze, il provvedimento, contenuto nella Direttiva del 7 giugno 2022, non fissa però un quantum minimo di retribuzione sul lavoro, ma stabilisce dei criteri per attenersi a dei livelli salariali ai limiti della sopravvivenza, considerando il costo della vita in ogni Paese e il potere d’acquisto della moneta corrente.
Per contrastare il divario sociale, l’Unione Europea ha perciò suggerito due alternative: stabilire a livello legislativo un salario minimo, stabilire poi l’estensione della copertura della contrattazione collettiva almeno all’80%. La direttiva, pertanto, a oggi non prescrive alcun obbligo sulle retribuzioni minime per i Paesi che non hanno norme ad hoc, lasciando totale discrezione nelle modalità di svolgimento della contrattazione collettiva. In Italia attualmente non esiste un salario minimo stabilito dalla legge: le soglie sono fissate in genere dai contratti collettivi, specifici per ciascuna categoria di lavoratori. Questa prassi ha però moltiplicato il numero di contratti, rendendo difficile stilare delle linee guida univoche: secondo l’ultima stima del CNEL, nel nostro Paese sono infatti attualmente in vigore 933 contratti collettivi nazionali la cui stipula non è tuttavia obbligatoria. Tanto per fare un esempio, vi sono imprese o tipologie di lavoro individuali in cui non è applicabile nessun contratto collettivo.
LE PRIORITÀ DI BRUXELLES: DA STABILITÀ AD EQUITÀ SALARIALE
Se finora la priorità di Bruxelles è sempre stata raggiungere la stabilità dei prezzi attraverso la moderazione salariale, al centro dell’agenda politica europea c’è ora l’equità. Questo cambio di rotta, tuttavia, contrasta con i continui richiami dei vertici europei a un imminente ritorno all’austerity, rischio che si percepisce a partire dall’aumento dei tassi d’interesse. Sarà che dopo due anni di pandemia, con l’inflazione alle stelle e con la recessione alle porte, si teme un prepotente ritorno di sentimenti antieuropeisti e, quindi, si pensa a come contenere il dissenso?
Secondo il Centro Studi politico-economico di UNARMA, il salario minimo potrebbe essere una soluzione per migliorare le condizioni di alcune categorie di lavoratori, ma non può essere l’unica risposta in materia di politiche retributive. La speranza è che non diventi il solo elemento su cui polarizzare il dibattito politico in un momento in cui le retribuzioni, anche quelle della classe media, avrebbero bisogno di un forte impulso alla crescita, pena il generale livellamento verso il basso del potere d’acquisto, dovuto al sostenuto e persistente aumento dell’indice dei prezzi al consumo.
UNARMA evidenzia, peraltro, che a livello normativo il diritto a una retribuzione degna è già sancito dall’art.36 della Costituzione, che recita: “Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Rimaniamo pertanto basiti di fronte a dichiarazioni della classe politica che parlano di successo europeo, quando in realtà si dovrebbe constatare il fallimento delle politiche italiane e comunitarie, che hanno determinato l’esistenza di retribuzioni sotto la soglia di sopravvivenza.
CERCASI STAGISTI PER VITA DA PRECARIO
Una categoria ignorata dagli accordi UE è chiaramente quella degli stagisti o tirocinanti. Si parla di una tipologia lavorativa che nella maggior parte dei casi non ha contratto di lavoro formale con garanzie, anche minime, di welfare aziendali. Questo spiega anche un altro fenomeno, sempre inerente alla precarietà lavorativa a cui sono sottoposti i più giovani in Italia: sempre più spesso le aziende si sono sbilanciate chiedano addirittura agli stagisti l’apertura di partite iva pur di essere assunti, sgravandosi così dei costi retributivi e lasciando che siano direttamente i liberi professionisti a sobbarcandosene gli oneri. Gli stagisti oggi si dividono in due categorie: quelli rientranti nei tirocini curricolari, così chiamati perché inseriti in un percorso formativo riconosciuto (all’interno di master, università, etc…) e quelli extracurricolari, ovvero gli stage effettuati al termine dell’attività di formazione.
Mentre i secondi prevedono l’obbligo da parte dell’azienda o dell’ente ospitante di un’indennità mensile, con delle somme minime stabilite da ciascuna Regione, gli stage curricolari non sono coperti da legge e quindi diventano prestazioni lavorative potenzialmente gratis, così come avviene anche per l’alternanza scuola-lavoro per gli studenti liceali. Il tirocinante quindi è costretto a effettuare stage per adempiere a obblighi universitari o di “albo professionale”, senza alcuna tutela contrattuale e in balìa di richieste spesso esigenti del datore di lavoro.
Un percorso di formazione del genere potrebbe essere accettato se circoscritto a un limitato periodo di tempo, seguito dall’assunzione con un regolare contratto di lavoro e un adeguato livello retributivo. Tuttavia, nella maggior parte dei casi nulla di ciò non avviene, in quanto i tirocini vengono utilizzati dalle imprese per avere forza lavoro riducendo al minimo i costi. Con queste premesse i tirocinanti passano di stage in stage con la consapevolezza delle oggettive difficoltà di trovare un lavoro stabile, in una vita di costante precarietà e con un aumento esponenziale di demotivazione e neet.
Secondo “La Repubblica degli Stagisti” ogni anno in Italia vengono attivati circa 500.000 tirocini tra curriculari ed extracurricolari, un numero elevatissimo di lavoratori invisibili e poco tutelati la cui sorte pare non essere al centro di alcuna agenda politica, se non quando si tratta di utilizzare i più giovani come carburante per la produttività del Paese.