A cura di Bruno Checchi
Oggi giorno l’uso dei social come Facebook, Instagram e altri mezzi, è diventato sempre più elemento fondamentale dell’interazione umana. Si sente spesso dire “quanto sei social”, oppure “ma non hai un account dove postare?”, quasi a significare che senza essere presenti sui social si è quasi invisibili alla nuova società sempre più virtuale e meno reale.
Questo fenomeno si è ingigantito con la pandemia, che in una prima fase ha costretto le persone in casa senza possibilità d’interazione con gli altri se non con mezzi virtuali; per l’appunto i social network.
Con l’accelerazione e capillare diffusione nella popolazione di questi mezzi di comunicazione/interazione ci si è chiesti quali limiti giuridici e quali norme possono applicarsi a questo mondo pseudo-virtuale.
All’apparenza, creare un account falso da cui “postare” false notizie o peggio notizie diffamatorie e/o ingiuriose nei confronti di qualcun altro, crea l’illusione di poter agire impunemente.
La velocità di diffusione delle notizie via internet, la difficoltà di verificare l’attendibilità delle stesse, pongono, oggi più che mai, il problema della liceità delle informazioni veicolate e della loro verifica, e mettono in rilievo il grande problema, per il legislatore ed il Giudice chiamato a pronunciarsi, di comprendere quale sia il limite tra la libertà e spontaneità dell’informazione e ciò che invece sfocia inevitabilmente nel reato di diffamazione.
Ovviamente, qui ci vogliamo riferire non alle testate giornalistiche online, che utilizzano internet, ed i social per veicolare notizie, alla stregua dei giornali cartacei, ma a coloro che comunicano il loro pensiero attraverso le reti social che la Cassazione definisce come “un servizio di rete sociale, basato su una piattaforma software scritta in vari linguaggi di programmazione, che offre servizi di messaggistica privata ed instaura una trama di relazioni tra più persone all’interno dello stesso sistema” (Corte di Cassazione, sez. V penale, sentenza n. 4873/2017).”
In questo periodo storico, dove la pandemia e le conseguenti limitazioni delle libertà personali, hanno acuito in maniera esponenziale le tensioni sociali e la violenza, l’uso improprio dei canali social assume una particolare rilevanza di carattere normativo e ancor di più giuridico.
Dobbiamo partire innanzi tutto, da due falsi miti che circolano fra coloro che usano in modo assiduo i social network, in particolare da coloro che li usano a fini diffamatori.
Innanzi tutto, la falsa convinzione che la creazione di account falsi, permetta di poter impunemente denigrare, diffamare e disseminare false notizie, odio sociale, di genere e razziale senza essere scoperti. Un altro mito da sfatare è che la rete (internet in senso lato) sia un territorio franco, senza norme regolatrici che possano essere ivi applicate.
Niente di più errato; nel corso degli anni l’attenzione del legislatore e ancor di più quello della Giurisprudenza, hanno permesso di creare un’infrastruttura normativa che ben si adatta al “mondo virtuale”.
Le fattispecie giuridiche che più si attagliano al complesso del mondo virtuale (senza voler pensare a coloro che mettono in atto condotte criminose complesse e che hanno specifiche competenze tecniche per farlo, ad esempio gli hacker) sono quelle della diffamazione (art. 595 c.p.) e la minaccia (art. 612 c.p.).
La diffamazione si concretizza con la diffusione attraverso i canali social di informazioni che “offendono l’altrui reputazione”.
In questo caso, il bene giuridico tutelato consiste nella reputazione, nel decoro e nell’onore del soggetto sia nella sua dimensione interna data da ciò che la persona pensa di sé stessa, sia in quella esterna legata ai suoi rapporti sociali. Il comma 3 dell’articolo 595 c.p. prevede che l’offesa possa essere perpetrata “col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità.”
La diffamazione, nel caso dei social, è considerata nella sua forma aggravata in quando la potenziale diffusività della notizia è pressoché infinita, stante l’enorme platea dei possibili destinatari. Ulteriore aggravante è espressa nel comma 2 dell’articolo 595 c.p. “Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato”; nel senso di offese pubblicate su un social e dirette ad un soggetto relative ad un fatto determinato.
L’articolo 612 c.p. invece si concretizza, quando si minaccia a qualcuno un danno ingiusto nel senso che “è sufficiente che il male prospettato sia idoneo, in considerazione delle concrete circostanze di tempo e di luogo, ad ingenerare timore in chi risulti esserne il destinatario, male che non può essere costituito dalla prospettazione di una legittima azione giudiziaria civile e dalla diffusione di notizie relative all’inadempimento negoziale commesso nei confronti dell’agente” (Cass. Pen., Sez. V, sent. n. 17159/2019). “
Basta quindi, per configurare la fattispecie della minaccia, che il male minacciato sia sufficiente ad ingenerare paura nel destinatario.
Ovviamente così come precisato dalla Suprema Corte dal novero della minaccia, quale fattispecie di reato, non va considerata la minaccia di ricorrere alla giustizia. Per cui, se viene pubblicato un post su facebook dove si minaccia tizio di denuncia alla pubblica autorità, ciò non integra il reato di cui all’articolo 612 c.p.
Tornando alla diffamazione una interessante sentenza che riguarda direttamente i Carabinieri è quella numero 2598/2022.
Un ragazzo, che era stato fermato da una pattuglia dei Carabinieri per dei controlli, successivamente aveva pubblicato sul suo profilo facebook un commento offensivo nei confronti degli stessi carabinieri, senza specificare gli autori del fermo e della successiva identificazione in caserma. Nello specifico il soggetto, trovato ad urinare in una pubblica via, era stato fermato da una pattuglia dei Carabinieri e successivamente tradotto in caserma per gli accertamenti del caso.
Dopo il rilascio, il ragazzo aveva pubblicato sul suo profilo facebook dei commenti ingiuriosi relativi ai Carabinieri, senza però specificare gli effettivi autori del fermo e senza dare indizi che ne permettessero l’identificazione nello scritto ingiurioso.
Denunciato per diffamazione, il caso è arrivato fino alla Suprema Corte in quanto la difesa del giovane sosteneva che i commenti erano sì offensivi, ma essendo diretti in generale nei confronti di tutta l’arma dei Carabinieri, non erano atti ad integrare il reato di ingiuria aggravata, perché non diretti nei confronti di uno specifico soggetto.
La sesta sezione penale della Suprema Corte si è pronunciata con la Sentenza 2598/20221 respingendo come infondato il motivo sollevato da parte ricorrente, in quanto “non osta all’integrazione del reato di diffamazione l’assenza di indicazione nominativa del soggetto la cui reputazione è lesa, se lo stesso sia ugualmente individuabile sia pure da parte di un numero limitato di persone.”
Il soggetto passivo, in questo caso l’arma dei Carabinieri, ben può, secondo i giudici della Suprema Corte essere individuato anche in assenza di riferimenti specifici a soggetti determinati. Analizzando la fattispecie concreta “quali la natura e portata dell’offesa, le circostanze narrate, oggettive e soggettive, i riferimenti personali e temporali e simili” insieme alla valutazione degli elementi oggetto della vicenda, in sede processuale, sarà quindi integrato il reato di diffamazione aggravata “anche quando l’espressione lesiva dell’altrui reputazione risulti apparentemente riferita, in assenza di indicazioni nominative, a un ampio novero di persone, identificato in ragione della appartenenza a un gruppo o una determinata categoria.”
Pertanto, è stata confermata la condanna della persona autore del post ingiurioso, pur non avendo lo stesso specificato i soggetti che direttamente lo avevano identificato; la Suprema Corte con l’introduzione di questo nuovo principio ha ritenuto integrato il reato di ingiuria aggravata, semplicemente con l’identificazione del soggetto passivo come l’Arma dei Carabinieri in generale.